Il termine crittografia deriva dalla lingua greca e precisamente dalla parola Kryptòs, che significa nascosto, e dalla parola Gràphein, che significa scrivere.
Infatti, la crittografia tratta delle “scritture nascoste”, ovvero dei metodi per rendere un messaggio occultato, in modo da non essere comprensibile a soggetti non autorizzati a leggerlo. Nata per esigenze di tipo bellico, oggi la crittografia viene adoperata, grazie all’utilizzo dell’elaboratore elettronico, unitamente alla firma digitale, per cifrare/decifrare documenti o messaggi.
La firma digitale è infatti fondata su una tecnologia di crittografia a doppia chiave asimmetrica (una chiave pubblica ed una privata), rappresentando così un validissimo sistema di autenticazione, ed integrità del documento.
Cornice normativa in cui si inserisce tale argomento è il D.lgs. 82/2005 (Codice Dell’Amministrazione Digitale) il quale, all’articolo 21, stabilisce quanto segue: “la firma digitale fa piena prova, sino a querela di falso”. Quindi dove si verifica la reale distinzione tra la firma autografa e quella digitale? Secondo la maggior parte degli orientamenti, essa risiede nella procedura di disconoscimento.
Infatti, per la prima sarebbe sufficiente che il convenuto avviasse una normale istanza di disconoscimento; mentre, nel secondo caso, il dispositivo si presume riconducibile al titolare, salvo che se ne dia prova contraria.
Risulta evidente che, in tal modo, si realizza una sorta di inversione dell’onere probatorio dall’attore al convenuto.